Storie vere... più o meno

Dagli scavi archeologici del vecchio blog: Storia di Erminia (che era piaciuta un sacco ai figli di certi amici miei)

La rana Erminia viveva da sola in un piccolo stagno ai margini del bosco, proprio lungo l’autostrada Salerno-Reggio Calabria.
Non aveva scelto lei quel posto, certo troppo rumoroso per i suoi gusti. Sapeva solo di trovarsi lì sin da quando era girina. Le sembrava a volte di ricordare la sua famiglia, i suoi fratelli e i loro giochi. Ricordava anche – ma forse era solo un sogno - che un giorno c’era stato un gran trambusto, un fuggi-fuggi generale, lei si era ritrovata in un angolo da sola e un ragazzino l’aveva raccolta dentro una lattina, insieme a un pò d’acqua. Poi c’era stato un viaggio, lei era stordita dalle bollicine di gas che galleggiavano nel liquido dolciastro e non avrebbe saputo dire quanto fosse durato. Alla fine, una mano più grande aveva preso la lattina e l’aveva fatta volare lontano. La piccola prigione d’alluminio era atterrata lungo i margini dell’autostrada e aveva continuato a rotolare, rotolare, rotolare.... fino a che non era andata a finire nello stagno. Lì, finalmente, si era rovesciata, liberando la povera Erminia.


....Sogno o no, da allora era passato un bel pò di tempo ed Erminia era ormai diventata una rana grassoccia, simpatica, di carattere fondamentalmente allegro. Si sentiva a volte un pò troppo sola, questo è vero, ma siccome era una tipa piena di iniziativa aveva deciso di superare il problema e si era messa a studiare le lingue degli altri animali del bosco.

All’inizio, tutti quanti l’avevano guardata in modo un pò strano, non s’era mai vista una rana fischiettare come un cardellino o belare come una capra. Ma alla fine ci avevano fatto l’abitudine, Erminia si applicava molto ed imparava bene, così dopo poco tempo si era già fatta un sacco di amicizie. Anche se ogni tanto, nel bel mezzo di un discorso, le scappava di gracidare un pò.

L’unico momento della giornata in cui ancora le veniva un pò di malinconia era al tramonto. A quell’ora, i suoi amici animali andavano tutti a dormire, ma lei sonno proprio non ne aveva, anzi, sarebbe stata lì a cantare alla luna per ore e ore. Per un pò lo faceva, ma dopo una mezz’oretta si scocciava di cantare da sola e se ne restava lì, silenziosa, a rimirare la luna e a pensare a chissà cosa.... e le venivano i lucciconi.

Evaristo, il gufo, la guardava dal suo albero. Erminia gli era molto simpatica e l’avrebbe volentieri aiutata, ma cosa poteva fare per lei?

Una sera gli venne un’idea. Per distrarre Erminia, l’invitò a fare un giro nel paese vicino, nelle case degli uomini.

Il paese in quella stagione era quasi disabitato. La maggior parte degli abitanti ci stava solo d’estate, e non era difficile entrare nelle case silenziose a curiosare un pò.

Manco a dirlo, Erminia, che per le novità andava pazza, fu entusiasta dell’idea.

Si avviarono insieme e, giunti davanti alla prima casa, Evaristo si caricò Erminia sulle spalle e svolazzò attraverso il caminetto. Atterrarono su qualcosa di morbido, sembrava un tappeto ma non avrebbero saputo dirlo con certezza, era buio pesto. Per fortuna gli occhi di Evaristo non tardarono ad abituarsi all’oscurità e dopo un pò il bravo gufo potè trovare l’interruttore della luce. L’accese. Si illuminò un salone molto spazioso, con le pareti tutte occupate da ripiani stracolmi di libri. In un angolo c’era un divano di stoffa, tutto graffiato. Segno che lì doveva abitarci anche un gatto. Dall’altra parte della stanza, una scrivania, con sopra un televisore lampeggiante.

Evaristo, cui piaceva molto leggere, subito si mise a svolazzare davanti alla libreria, avanti e indietro, tirando giù tutti i volumi che lo interessavano. Poi si sdraiò sul divano e si immerse nella lettura, dimenticandosi della sua amica.

Erminia rimase per un pò a guardarsi intorno, seguendo i voli di Evaristo. Poi adocchiò il televisore e si diresse da quella parte. Saltò sulla scrivania. In realtà, a guardarlo meglio non si trattava proprio di un televisore. Accanto allo schermo c’era anche una specie di tavoletta piena di tasti, con una palla rossa nel mezzo. La rana girò la testa di qua e di là, perplessa. Poi si ricordò che Tommaso, il cane pastore, una volta le aveva parlato di una cosa chiamata “bau-computer”, a qualcosa del genere, una roba che il suo bau-padrone stava a guardare per un sacco di tempo, muovendo ogni tanto le dita sulla tavoletta con i tasti. Tommaso le aveva raccontato che ogni tanto si divertiva anche lui a guardarci dentro e una volta, toccando la tavoletta, era riuscito a farlo funzionare, il bau-computer si era messo a suonare e sullo schermo erano apparse delle figure bellissime. Aveva cercato pure di acchiapparne una, ma non ci era riuscito perché quella era scappata via subito e al suo posto ne era subito arrivata un’altra. Era stata una cosa bau-divertentissima.


Erminia decise: doveva riuscire anche lei a far funzionare il misterioso apparecchio. Ma per quante volte potè provare, non ci fu verso. Dalla scatola non usciva nessun suono e nessuna figura si muoveva sullo schermo. Provò per ore a schiacciare tutti i tasti e far rotolare la pallina rossa di qua e di là, ma non succedeva proprio niente. Alla fine si stancò e si addormentò su una sedia girevole.


La svegliò Evaristo che ormai era giorno; se ne ritornarono piano piano verso il bosco, mentre Erminia, tutta contenta, raccontava al suo amico della sua decisione: la notte appresso sarebbero tornati nella casa. Magari insieme a Tommaso, che così avrebbe potuto insegnarle a far funzionare quella macchina meravigliosa.

Evaristo era un pò preoccupato. Una capatina ogni tanto va bene, ma tornare troppo spesso nelle case degli uomini poteva essere pericoloso. Solo che Erminia era così decisa e così piena di aspettative, che non se la sentì di deluderla e le promise di accompagnarla ancora.

Non fu facile convincere Tommaso, che di natura era pigro assai. Ma dopo un pò di insistenze, e con la promessa che Erminia gli avrebbe insegnato a parlare il linguaggio di quelle teste dure di pecore, che così non avrebbero più potuto far finta di non capire i suoi ordini, Tommaso diede il suo Ok.

Il giorno dopo, subito dopo il tramonto, i tre si ritrovarono davanti alla casa: Erminia, Evaristo e Tommaso. Rifletterono un pò. Entrare sarebbe stato difficile, Evaristo non poteva certo caricarsi sulle spalle quel ciccione di Tommaso.

Per fortuna, arrivò il loro aiuto un topo di campagna, che si era stabilito nella casa e ormai la considerava un pò di sua proprietà, aveva pure deciso di mettere su famiglia e chiesto la mano alla figlia del topomastro del paese.

Il topo, che si chiamava Alfonso e aveva dei graziosi baffetti arricciati (lui diceva per bellezza ma in realtà se li era bruciacchiati un giorno che si era avvicinato troppo ad una candela e non gli erano più ricresciuti dritti), li condusse attraverso uno stretto passaggio che passava per la cantina della casa, sbucava in garage e quindi arrivava direttamente in cucina. Lì si congedò, non poteva accompagnarli oltre perché doveva portare un regalo alla sua ragazza e doveva assolutamente riuscire ad aprire una scatoletta di tonno sott’olio cui stava lavorando già da un paio di giorni.

Dopo un pò di ricerche, finalmente i nostri tre amici trovarono il salone e il computer.

Tommaso si avvicinò lentamente all’apparecchio. Poi disse solenne: “Datemi una bau-sedia, avrò bisogno di un pò di bau-tempo”. Si sedette e cominciò ad armeggiare sulla tastiera, senza dire una parola.
Erminia ed Evaristo rimasero alle sue spalle.

Dopo un pò, Evaristo se ne ritornò ai suoi libri; Erminia all’inizio aspettò tutta attenta, poi le venne sonno e si addormentò.

Dopo un paio d’ore, la svegliò di soprassalto una musica fortissima: Tommaso era riuscito ad accendere il computer! Lo schermo era diventato tutto azzurro ed era apparsa una scritta lampeggiante.

“Cra!” fece Erminia. “Sei eccezionale, Tommaso!”

“Grazie, grazie, non è niente..è stato un bau-giochetto... ma non succede più niente adesso.....”

Anche Evaristo si avvicinò e tutti e tre restarono a guardare per un pò lo schermo.

“Che facciamo? Che c’è scritto? Che vuole?” fece Erminia

“Prego, inserire la password” Lesse Evaristo.

“Che è la password?”

“E’ la parola-chiave. Sì, la parola d’ordine insomma, che serve per far funzionare il computer”

“E qual’é?”

“Non lo so....”

“Non è possibile. Tutta questa fatica, e poi.....”

“Non ti scoraggiare, Erminia. Magari dobbiamo solo ragionarci un pò. Aspetta...”

Evaristo ricominciò a volare aventi e indietro davanti ai libri. Leggeva qui, apriva un’altra pagina, poi rimetteva tutto a posto, ricominciava daccapo.

“Ci sono!” disse alla fine

“Chi?” chiese Tommaso

“Ma no, non c’è nessuno.... volevo dire.... ho capito!”

“Che cosa?” Le faccette della rana e del cane guardavano interrogative Evaristo.

“Dobbiamo trovare il nome del gatto.”

“Il gatto?”

“Sì, il nome del gatto è la password! Certo. Gli umani che abitano qui ne vanno pazzi. Guardate: gli hanno permesso di distruggere il divano. Ci sono sue foto dappertutto, vedete là sul muro? E lì, su quella mensola? Sicuramente avranno anche usato il suo nome come password per il computer”.


Tutto e tre si misero a guardare dappertutto, alla ricerca di un indizio. Finalmente Erminia, proprio accanto a una cesta di vimini foderata di velluto a coste, trovò una medaglietta luccicante, con inciso qualcosa.

“Evaristo” chiamò

Il gufo lesse: “Pallino. Bene”

Volò al computer. Scelse con cura i tasti. Clic. Clic. Finalmente, lo schermo azzurro cambiò…

“Che c’e scritto? Che c’è scritto?”

“Dice di scegliere un’applicazione. Ciccare qui se volete entrare in internet”

“Che è bau-internet?”

“E’ la grande rete. Puoi andare dove vuoi, parlare con gente lontanissima, anche dall’altra parte del mondo”

“Anche con altre rane? Possiamo trovare altre rane?”

“Questo non lo so, Erminia. Certo, ci possiamo provare, ma è difficile….”

“Insegnami”

“E va bene, ma prima devi imparare a leggere, se no è tutto inutile”.

Nei giorni seguenti, Erminia si applicò nello studio con una tale buona volontà che il gufo era davvero commosso. In capo a un mese, aveva già imparato a leggere bene e a scrivere stampatello.

Finalmente, poterono tornare nella casa.

Accesero il computer – ormai sapevano come fare – e avviarono internet.

Dopo un po’ di tentativi, grazie al libro di istruzioni trovato da Evaristo riuscirono a trovare un buon motore di ricerca e cominciarono a navigare.

Erminia riuscì così a vedere dei posti lontanissimi, animali così strani che non se li sarebbe mai immaginati, luci, colori, le piante più alte che avesse mai visto. E anche rane, piccole, grandi, simpatiche o con il muso lungo.

Fino a che non capitarono nello strano sito di un’agenzia di viaggi, che organizzava vacanze per animali mentre i padroni se ne stavano in ferie ed era in cerca di una località tranquilla in cui far soggiornare, periodicamente, una famigliola di ranocchi.

A Erminia non parve vero. Inviò subito un messaggio all’agenzia, e attese con ansia la risposta, la sera dopo. L’agenzia aveva accettato e in capo ad una settimana un furgone bianco si fermò davanti alla casa e il fattorino, dopo aver suonato al campanello per un paio d’ore senza nessuna risposta, finalmente si stancò e andò via, lasciando davanti alla porta un grosso scatolone bianco.


Con l’aiuto di Alfonso, ormai diventato maestro nel maneggiare forbici e apriscatole, lo scatolone fu aperto. Dentro, apparvero sei occhi gialli gialli, appartenenti a tre rane un po’ segaligne, dall’aria piuttosto triste e alquanto snob.

Erminia era felicissima. Diede subito il benvenuto alle tre rane, che si guardarono intorno spaesate. Si aspettavano una specie di pensione per animali, lì si trovavano in una casa, piena di animali sì, ma diversa da tutte quelle che avevano visto prima.

“Dov’è la doccia?” Chiese la prima rana

“E da mangiare? Dov’è il mangiare? Ho fame!” Disse la seconda

“Sono stanco, voglio dormire! Silenzio!”

Erminia rimase lì per lì un po’ perplessa dall’atteggiamento dei nuovi arrivati, ma poi spiegò loro come stavano le cose.

I tre rifletterono e parlottarono qualche minuto fra di loro.

“Va bene”, disse alla fine la terza rana.

“Voi ci avete fatto arrivare fin qui. Non ci sono guardiani, nessuna gabbietta. Siamo liberi, grazie!”

Tutti gli animali presenti applaudirono contenti. Erminia li mostrò ai nuovi amici, che ancora non parlavano le lingue degli altri, e li presentò uno per uno.

Le tre nuove rane andarono ad abitare nello stagno di Erminia, che così la sera non dovette più cantare da sola (questo dava per la verità un po’ fastidio agli altri animali, perché facevano una confusione incredibile, ma tutti erano così contenti per lei che non ebbero mai il coraggio di lamentarsi).

Nella casa in primavera tornarono gli uomini, che dovettero discutere un po’ con i tizi dell’agenzia e dovettero anche pagare una multa per il furto delle tre rane.

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Storie di gatti che sono stati amici miei

"Rouge"

Chi ha avuto modo di frequentare qualche piccolo felino sa benissimo quanto ognuno di loro sia diverso dall’altro e sempre, sempre specialissimo (questo è il motivo per cui ogni possessore di gatto potrà con piena ragione affermare l’unicità e l’eccezionalità del suo animale). 
Differenze e specialità emergono chiaramente anche dal modo in cui ciascun gatto vive il giardino. 
Solo per fare qualche esempio:  Rouge, il grosso gatto rosso di una mia vicina, detto anche “il Principe”, si ritiene – a ragione  - bellissimo e adora giocare a fare il divo. Per lui il giardino condominiale è una specie di Boulevard de la Croisette, che si limita ad attraversare con andatura distratta, fermandosi di tanto in tanto per lasciarsi ammirare.  
“Guardate quanto sono bello” sembra dire in quei momenti. “Sono sicuro che non avete mai visto niente di tanto elegante… ah, che fascino! “. Un leggero strabismo, conseguenza di un trauma infantile, nulla toglie alla veridicità della sua ingenua convinzione. 
Ha l’abilità di collocarsi, quando il sole tramonta, proprio nel punto in cui cade l’ultimo raggio di luce. Così il suo manto brilla come fosse d’oro. Conosce benissimo, il nobile Rouge, l’abc delle tecniche di fascinazione feline. 

Da giovane amava esprimere la sua peculiarissima vena istrionica soprattutto a beneficio dei condomini del piano terra, che come il furbacchione ben sapeva erano tutti muniti di gatto, e quindi di ottime cibarie.
Nessuno poteva resistergli quando, rannicchiato sotto i vecchi pini – uno sfondo ideale per esaltare la drammaticità della scena -   assumeva l’espressione contrita da piccola fiammiferaia, cui tipicamente associava il “lamento del povero micio sperduto”. In quei momenti i suoi otto chili e passa scomparivano come d’incanto: lui appariva esile come un fuscello, un povero straccetto in mezzo alla polvere….  e la razione supplementare di croccantini arrivava quasi sempre (per la disperazione della persona che cura il nostro amico, da sempre preoccupata di tenerlo a dieta). 
Anche grazie alla sua abilità nella recitazione, con gli anni Rouge ha elaborato tutto un repertorio di strani miagolii, che usa in modo sorprendentemente appropriato. E’ il classico gatto che non solo sembra intendere benissimo ciò che gli si dice: lui risponde a tono. E a volte giurerei che si diverta ad osservare l’espressione interdetta degli umani interlocutori…. 
Rouge l'anno scorso è andato oltre il ponte. Riposa in pace, piccoletto, ti volevo bene. Non ti dimenticherò mai.



"Spike"

Spike, con il suo manto completamente nero, si era attribuito il ruolo di guardiano del castello. Piazzato proprio accanto al cancello d’ingresso al giardino del nostro caseggiato, guardava dritto negli occhi tutti i passanti.
A proposito: mai fissare un gatto troppo a lungo, è un segnale di sfida. Nel caso di Spike, poteva pensare che foste dei ladri, o dei pericolosi truffatori. E allora avreste corso qualche rischio. Non vorrei fare un paragone troppo azzardato, ma se fosse stato un essere umano Spike avrebbe amato moltissimo i vecchi film di cappa e spada: lui era sempre pronto al duello d’artiglio.

Avreste dovuto vederlo quando, novello Capitan Blood, dall'alto dei muretti di recinzione si lanciava con entusiasmo e vigoria all'arrembaggio degli spavaldi motorini che in barba ad ogni divieto avevano l'ardire di gettare le ancore lungo i vialetti condominiali. Non faceva prigionieri: i sellini di similpelle venivano ridotti a brandelli con la chirurgica precisione e la compassionevole rapidità delle migliori lame di Toledo.

Spike si concedeva volentieri e di frequente delle pause di riposo, ma come succede a tutti i grandi artisti poteva essere colto all'improvviso e per motivi imprecisati da una irrefrenabile ispirazione. Così, se fino ad un attimo prima sedevi accanto ad un placido micio addormentato, l'istante dopo potevi ritrovarti con qualcosa di molto simile a un indomito Robin Hood tenacemente attaccato alle caviglie, ben deciso a non mollare la presa, neanche il tuo polpaccio fosse stato il perfido sceriffo di Nottingham. Qualche graffio ben assestato e poi via, a cercare rifugio nel folto degli eleagni di un'improbabile foresta di Sherwood...
La ragione dell’improvvisa scomparsa di questo piccolo paladino resta avvolta nel mistero. Le ipotesi più accreditate fanno pensare ad un intruglio di funesta perfidia e rancorosa velenosità.
Non serve di conforto pensare che i cuori di pietra non saranno mai capaci di volare.
Ma quale che sia stata la meta del suo spirito innocente, di lì Spike deve aver sicuramente continuato a seguire le vicende della nostra comunità; tant’è che qualche settimana dopo la sua partenza comparve in sogno al suo fedele compagno umano, indicandogli un gattino del suo stesso identico colore e mormorando con tono vagamente spregiativo, la vibrissa destra leggermente sollevata: “Non mi somiglia pe’ niente…” .
E fu così che arrivò il suo successore, Merlot.







Storie antiche di gatti: MY-UT

da  http://flowersandcats.blogspot.it/ (alzi la mano chi si ricordava l'indirizzo... nessuno, eh?

My-ut era venuta al mondo in una tiepida mattina, il giorno 9 del mese di Payni. 
Sua madre, E-wa, la prima gatta della grande regina Cleopatra, aveva dato alla luce i suoi micini con l’aiuto di Amina e Nadira, due ancelle fidate che l’avevano adagiata su un prezioso cuscino nero, il più morbido che fossero riuscite a trovare nella confusione del momento. Fu proprio per il colore di quel cuscino che all’inizio nessuno accorse della presenza di My-ut: nata per ultima, era più piccola degli altri cuccioli e il colore del suo mantello, più scuro della notte, l’aveva resa praticamente invisibile, mimetizzandola tra le pieghe della stoffa.
E-wa, troppo presa dagli altri quattro piccoli, si era rigirata sul cuscino e rischiava di schiacciare col suo stesso peso la povera My-ut, quando questa, intuendo il pericolo, capì che per sopravvivere poteva fare una sola cosa: urlare con quanto fiato aveva in gola. Lanciò così il suo primo, straziante, altissimo miagolio, così acuto da arrivare fino al sensibilissimo orecchio di Sua Maestà, ancora addormentata nella stanza vicina. 

A quel grido così inatteso – non si riusciva nemmeno a capire da dove provenisse – sobbalzò l’esausta E-Wa, sobbalzarono le ancelle ed ebbe un moto di sorpresa anche l’Astrologo di corte, arrivato per presenziare all’evento (da lui, ovviamente, previsto in modo più preciso di un futuro orologio svizzero). Solo i gattini, ancora ciechi e sordi, restarono indifferenti e si limitarono ad annusare l’aria coi loro buffi, minuscoli nasetti.
Cleopatra, preoccupata per le sorti della sua gatta preferita, arrivò di corsa nella stanza. “Chi ha gridato così?” 
Le ancelle, non sapendo cosa rispondere, restarono chine com’erano, prolungando oltremisura l’ossequio alla regina.

“Sciocche ragazze”, brontolò la regina, dirigendosi verso E-wa. Allungò le mani verso il cuscino, ed ecco che si accorse di quella minuscola forma nera, che si agitava senza posa. La prese fra le mani, guardandola con occhi pieni di meraviglia. Non s’era mai visto un gatto nero in tutto il regno, mai in tutta la storia. Anche Tareq, l’Astrologo, si avvicinò a quella meraviglia. “Di certo, è un segno della grande dea Iside… il nero le è sacro!” sentenziò.

My-ut restò immobile… l’istinto le suggeriva di assecondare quei due strani personaggi e nonostante la tenerissima età assunse la posa più dignitosa che potè, accoccolandosi un po’ tremolante proprio nel palmo della mano di Cleopatra. La sovrana la depose con delicatezza accanto a sua madre, perché potesse nutrirsi. Ordinò poi alle ancelle di dedicarle la massima attenzione, perché quella era una gatta indubbiamente mandata dagli dei per qualche loro misterioso disegno. My-ut gridò ancora, come a confermare quella deduzione. Tutti si immobilizzarono, fissandola attoniti. La micina percepì il loro sguardo (i suoi occhi erano ancora completamente chiusi e non poteva vederli) e, molto soddisfatta per il successo ottenuto, si fece largo baldanzosa tra i fratelli e cominciò anche lei a bere il latte di E-wa. 

Da quel giorno, la grande regina si separò raramente da My-ut. La considerava una specie di talismano, anche perché si era accorta che la gattina sembrava possedere un incredibile dono: poteva leggere nel pensiero degli uomini, capire le loro vere intenzioni. Fin dall’inizio infatti, My-ut aveva preso l’abitudine di accomodarsi sul grembo della sovrana, mentre questa concedeva le sue udienze. Cleopatra non ebbe bisogno di molto tempo per accorgersi che la gattina faceva le fusa quando la persona ricevuta era di spirito limpido e si presentava con buone idee o richieste ragionevoli. Invece, quando la vedeva rizzare il pelo o addirittura la sentiva conficcare gli artigli nella stoffa della sua veste, era certo che sarebbe entrato nella sala un uomo malvagio, disonesto o di cui sarebbe stato comunque meglio non fidarsi.

My-ut dal canto suo era ben contenta di poter dare il suo aiuto alla regina, che sapeva circondata da incredibili minacce. Purtroppo, gli dei non avevano voluto concederle la facoltà di parlare, ma la sua straordinaria intelligenza la portò presto a sviluppare la capacità di comunicare con chi desiderava grazie alla forza del pensiero. 
Guardando fisso negli occhi le persone, My-ut non solo poteva vederne chiaramente lo spirito ma sapeva anche inviare loro dei messaggi, tradotti in immagini certo, ma sempre molto chiari. All’inizio si avvalse di questa capacità solo per farsi viziare un po’ da Amina e Nadira, che le obbedivano gentilmente, inconsapevoli di quanto in realtà stava accadendo. 
Poi una mattina, all’età di circa tre mesi, decise che era giunto il momento di rivolgersi direttamente a Cleopatra. Ne attirò l’attenzione col suo solito miagolio e poi, sedendole di fronte, la guardò fissamente, a lungo. 
"La veste che indossi oggi è molto sciccosa, mia regina" Pensò più forte che poteva.
Cleopatra sorrise. Confortata, la micina continuò.
“Stà attenta a quel romano” la sua espressione adesso si era fatta grave. “Non riesco a vedere chiaramente nella sua mente, ma ho un brutto presentimento”… Cleopatra purtroppo non capì, e qualche giorno dopo partì alla volta di Roma. 
(continua)



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